A DINNER WITH
SIMONE MARCHETTI
da Giacomo Milano

Simone Marchetti, direttore di Vanity Fair, è un assiduo frequentatore di Giacomo da anni. Durante il pranzo, ci ha svelato uno dei suoi passatempi preferiti: osservare la varietà di persone che popolano i nostri locali, dove il buon cibo, l’atmosfera conviviale e l’arte di stare insieme diventano degli ambasciatori culturali.

Parlaci del tuo percorso professionale. Quando è iniziata la tua passione per la moda e come sei riuscito a declinarla nell’ambito editoriale?
Non lo ricordo esattamente, come non ricordo la prima volta che sono venuto da Giacomo. Non ricordo un sacco di cose della mia vita, ma è meglio così, perché preferisco dimenticare e lasciare spazio per al nuovo. La moda ti educa a quella cosa lì. Lo stile resta fermo e immobile, mentre la moda ti costringe a cambiare sempre, e a me piace. L’ho fatta diventare una professione poco alla volta, con costanza. Ci ho messo un sacco di anni. Entrando non dalla porta secondaria, ma proprio da un’altra porta. All’inizio ho lavorato come maschera al Teatro alla Scala, mentre studiavo filosofia a Milano. Poi ho cominciato a scrivere per alcune agenzie, per alcuni giornali indipendenti, dopo ancora sono diventato collaboratore e, piano piano, sono arrivato dove sono oggi. Nessuno della mia famiglia faceva questo mestiere. Penso che quello che mi ha portato fino a qui sia l’ostinazione, la passione e la mancanza di nostalgia.

C’è una figura in particolare che consideri un mentore o che ti è stata d’ispirazione? Per quale motivo?
Ce ne sono tantissime. Alcune immaginarie, altre molto reali. Ci sono tutti gli scrittori che ho letto da adolescente, che mi hanno tenuto compagnia e che erano i miei migliori amici, e poi ci sono delle persone che mi hanno proprio aiutato nel mio percorso professionale. È impossibile nominarle tutte. Nomino l’ultima, che mi ha visto, mi ha studiato, mi ha fatto crescere, e con cui adesso lavoro tantissimo: si chiama Anna Wintour, è il capo migliore che una persona possa avere.

Sei stato tra i primi a parlare dell’ascesa dei blogger e, più in generale, del mondo digitale all’interno della moda. Come è cambiata la fruizione delle notizie e dei trend nel corso degli anni?
Non è solo cambiata, continua a cambiare. Adesso, che c’è l’intelligenza artificiale, e domani, che ci saranno altre scommesse. Noi stiamo vivendo uno dei più grandi cambiamenti della storia dell’umanità. Un momento come questo c’è stato quando sono state inventate la scrittura o la stampa. È una cosa di cui, probabilmente, si renderanno conto le generazioni che verranno dopo di noi. Quello che non bisogna fare è essere nostalgici.

Che impatto ha avuto questa evoluzione sul tuo lavoro e, più in generale, sulla carta stampata?
Mi ha fatto diventare quello che sono e mi ha fatto sempre più capire che la nostalgia non serve a niente. Devi portare la tradizione e quello che hai imparato nel futuro. Non solo, penso che ci sia anche un compito più progressista, non soltanto professionale. E il compito progressista è quello di lasciare un mondo un pochino migliore di come l’hai ricevuto. Per cui il lavoro per me è anche un atto politico e serve a cambiare le cose.

Nel 2019 sei diventato Editor in Chief per Vanity Fair Italia e, successivamente, European Editorial Director di Vanity Fair. La tua professione ti ha permesso di fare esperienze e incontri importanti, con personalità di tutti i tipi. C’è un evento o un aneddoto che ti è rimasto particolarmente impresso e che ti va di condividere?
È una domanda troppo difficile per me. Posso rispondere dicendo che una volta sono andato a New York, per intervistare un’artista molto brava, che fa delle miniature piene di dettagli, e lei mi disse: «Vedi, devi imparare che non sei tu a guardare l’arte e le cose, sono le cose a guardare te e a trasformarti. Quindi impara a farti guardare delle cose». Nel mio lavoro ho imparato a farmi guardare e attraversare dalle storie degli altri. Per cui aver passato due giorni con Madonna su un set, ascoltare i racconti di Michela Murgia o gli imbarazzi e i sogni dei Maneskin all’inizio, o aver girato Roma nel silenzio della pandemia con Sorrentino per un numero straordinario di Vanity Fair… sono tantissime cose, talmente belle, ma da cui io mi sono lasciato guardare. Ed è questo che faccio con il giornale, io metto le persone sul palcoscenico e le guardo, e faccio in modo che si esprimano in totale libertà. Mi piace guardare le emozioni e mettere le persone nella possibilità di raccontare le loro storie, e fare in modo che le loro storie diventino di ispirazione alle storie di altri. Questa è la cosa più bella che faccio.

In una realtà sempre più veloce e connessa, lavorare nel mondo dell’editoria e della comunicazione può diventare decisamente intenso. Come riesci a trovare un equilibrio tra il tempo del lavoro e il tempo per te stesso?
Scappo. Ho raffinato l’arte della fuga. Una cara amica, che si chiama Anna Dello Russo, mi ha spiegato che, per riempire di idee e di cose il tuo lavoro e la tua vita, devi creare dei vuoti. Il mio vuoto sta sopra i colli di Piacenza, nella prima casa che ho acquistato, in mezzo alla natura. Prendo i miei due cani, vado nei boschi, dimentico tutto e in quei tragitti vengono le idee migliori.

Milano è un luogo molto caro a Giacomo, qui è stato aperto il primo ristorante e siamo cresciuti, prima di decidere di espandere l’attività anche in altre zone d’Italia. Come descriveresti il tuo rapporto con la città? Ci sono dei luoghi a cui ti senti particolarmente affezionato?
Milano per me è e resta il luogo dove i sogni si possono realizzare. È la città più europea d’Italia e una delle città più internazionali d’Europa. Per me è stata grandiosa perché mi ha permesso di diventare chi sono. Sicuramente Giacomo è uno dei miei luoghi preferiti. È l’istituzione dove porto le persone alle cene di lavoro, i miei genitori… Mentre il bancone di Giacomo Bistrot è come un porto dove arrivano delle barche, delle navi, degli yacht, degli scappati di casa. Qualcuno ricco, qualcuno no, qualcuno intelligente, qualcuno no, qualcuno vestito bene, qualcuno vestito malissimo… e a me piace guardare tutta questa umanità. Capire e vedere, e pranzare o cenare mentre tutto questo succede. Ci sono tanti altri posti: gli orti e l’Accademia di Brera, che sono dei posti magnifici; una chiesa in Corso Magenta, a cinque minuti dall’ufficio, dove vado per creare vuoto ogni tanto; il parco di Porta Venezia, dove porto i cani tutti i giorni.

Ricordi la prima volta che sei stato da Giacomo? Si trattava di un’occasione speciale?
Devo essere sincero, mi stanno venendo in mente delle cose. La risposta che darei di primo acchito è no, però ricordo che quando ero studente lavorai per un’agenzia di cantanti lirici e, probabilmente, venni qui una delle prime volte con un gruppo di cantanti. Erano qua per uno spettacolo alla Scala, forse una Traviata, non me lo ricordo… e credo fossimo venuti a pranzo, neanche a cena. Era la metà degli anni ’90. Ma potrei sbagliarmi.

Cosa ti aveva colpito di più del nostro locale?
Il colore. Il colore e il decoro, che trovavo così sbagliato e così giusto, come tutte le cose belle. In quel periodo c’erano i designer giapponesi e gli hotel minimalisti, con i divani crema e le pareti color burro, i futon, e tutti si mangiava il sushi… ed era una grande bugia. Qua c’era della realtà. Era una cosa fuori dal tempo. Mi impressionò per quello.

I concetti di convivialità, calore e condivisione, ricoprono un ruolo fondamentale nella filosofia di Giacomo e nel servizio che riserviamo ai nostri ospiti. Che cosa significa per te convivialità?
È la base della civiltà. La civiltà si basa sulle buone maniere e le buone maniere sono la civiltà. E non mi riferisco all’educazione, ma alla capacità di mettere ponti tra le persone che la pensano in modo diverso. Quando un luogo come un ristorante, per esempio, riesce a diventare un luogo di convivialità, è il massimo della civiltà. Perché il cibo e le buone maniere, l’arte di stare insieme, sono come degli ambasciatori culturali. Permettono alle persone di conoscersi, di capirsi, di migliorarsi, di cambiare idea, ed è la cosa più bella del mondo.

Che cosa hai ordinato oggi per il tuo pranzo da Giacomo?
Ero indeciso. Come sempre, arrivo con un’idea e poi la cambio. Ho ordinato i ravioli cacio e pepe con il gambero, però, tornando indietro, forse ordinerei qualcos’altro. Tipo il risotto o il fritto. Ecco… io, purtroppo, ho un grande problema con il fritto. Con lo champagne e il fritto, le ostriche e il foie gras… insomma, ho diversi problemi con il cibo. Mettiamola così.

Giacomo Bulleri, il nostro fondatore, credeva fermamente nella capacità del cibo di evocare un intero spettro di ricordi e sensazioni, grazie a sapori, consistenze e alla loro combinazione. Che cosa ti riporta alla mente questo piatto?
Una delle cose che mi riporta alla mente è lui. Ricordo che lo vedevo quando arrivava la sera, come guardava le persone, la sua curiosità. E questo mi è sempre piaciuto tantissimo. Me l’hanno presentato più volte, ma era un personaggio abbastanza schivo. Mi piaceva anche questo. Questo piatto in particolare mi ricorda le cose più belle di Roma e le cose più belle dell’estate al mare, unite a Milano. È una sorta di vacanza immaginaria.

Ci piace pensare a Giacomo come a un grande salotto a cielo aperto in cui fare incontri piacevoli e inaspettati. Ti è mai successo qualcosa del genere?
Sempre. Vengo qua solo per quello, oltre che per il cibo. Come dicevo prima, i luoghi migliori, i migliori ristoranti, i migliori punti di aggregazione sociale che riescono a far scattare la convivialità, ovvero la civiltà, sono uno dei vertici dell’umanità. È la cosa più bella, perché qui puoi incontrare persone dal Medio Oriente, dall’Asia, dall’America, dal Sud America e sentirti completamente diverso, ed è per questo che la diversità arricchisce. I luoghi che sanno coltivare la diversità sono i luoghi che sanno seminare il futuro.

Se dovessi descrivere la tua esperienza da Giacomo con tre parole, quali sarebbero?
Rumoroso, nel senso più bello del termine. Qui c’è il rumore della vita e a me piace per quello stare al bancone. Si rompono sempre i bicchieri! Io adoro quando succede. Se ad una festa non si rompe un bicchiere, non è la festa giusta. Perché a un certo punto uno fa una manovra sbagliata, uno balla troppo, il cameriere va troppo veloce… è il rumore della vita, è bellissimo. Conviviale, nel senso dell’unione della diversità e dell’umanità, nel senso della civiltà. E poi italiano.

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